Il crollo economico in Sicilia [modifica]
Il Regno delle due Sicilie non aveva un elevato debito pubblico al momento della sua caduta, anche a causa della bassa quantità di investimenti in opere di modernizzazione; al contrario, il Regno di Sardegna ne aveva uno molto elevato anche a causa delle guerre sostenute contro gli austriaci. In seguito all'Unità d'Italia venne unificato anche il debito, facendo gravare anche sui contribuenti meridionali gli investimenti effettuati in Piemonte nel corso degli anni '50 del XIX secolo. I fondi del Banco delle Due Sicilie, che era la Banca nazionale del regno borbonico (443 milioni di Lire-oro, all'epoca corrispondenti al 65,7 del patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme) vennero incamerati dal nuovo Stato italiano, concorrendo a costituire il capitale liquido nazionale nella misura di 668 milioni di Lire-oro.L'istituto fu poi scisso in Banco di Napoli e Banco di Sicilia, partendo con evidente perdita iniziale di competitività nei confronti delle imprese bancarie nazionali.
Ad Unità realizzata, con le politiche liberiste del nuovo Regno d'Italia, a cui erano state estese le metodologie di governo proprie del vecchio Stato sabaudo, entrarono in crisi i principali settori produttivi delle regioni meridionali e della Sicilia, che perse i mercati tradizionali non reggendo più la concorrenza inglese e francese.
La fiscalità, divenuta più gravosa rispetto a quella borbonica, finiva così col finanziare gli investimenti al nord Italia. Sulle spalle dei siciliani, abituati ad unica tassa sul reddito, che copriva tutte le spese pubbliche ed anche locali, si venivano a caricare le nuove tasse comunali, le nuove tasse provinciali, il "focatico" (che essendo una tassa di famiglia colpiva duramente le famiglie numerose), la tassa sul macinato (che affamava proprio i più poveri, quelli che, cercando di risparmiare macinando il proprio esiguo raccolto, incorrevano nella famelica imposta), la nuova tassa di successione ed altre cosiddette addizionali.
Il nuovo Stato, peraltro, era ancor più restio dei Borboni ad investire in Sicilia: ad esempio, dal 1862 al 1896 vennero investiti per opere idrauliche al nord Italia 450.000.000 contro soli 1.300.000 in Sicilia.
Mentre nel resto d'Italia si moltiplicavano le linee ferroviarie, la Sicilia ebbe la sua prima, brevissima, Palermo-Bagheria, solo nel 1863.
La politica liberista dei governi unitari fu quella che aggravò maggiormente la situazione economica della Sicilia, ridotta così a colonia del Piemonte. Con la politica del libero scambio venne disincentivata la produzione della seta siciliana e del tessile locale, troppo frammentati, a vantaggio della grossa impresa del nord Italia e così avvenne anche per la locale industria alimentare; perfino i settori dell’industria pesante decaddero per mancanza di commesse e fondi.
Se ne avvantaggiava soltanto la produzione del grano, del vino e degli agrumi, che venivano esportati durante la guerra di secessione americana. Anche questo durò soltanto fino al 1887, quando il cambiamento della strategia del governo italiano, da liberista a protezionista, e la guerra doganale finirono con l'assestare il colpo di grazia all'economia oramai essenzialmente agricola della Sicilia, privandola dei suoi mercati.
Furono anni in cui avvenne un progressivo spopolamento, per fame, delle campagne. È proprio in questa serie di fattori che si individua da più parti il sorgere della mai più risolta questione meridionale.
Nessun commento:
Posta un commento