martedì 28 ottobre 2008

latifondo e zolfatare

carusi all ingresso niniera zolfo

22 3. Il tramonto del latifondo
e la Riforma fondiaria
3.1 La crisi produttiva
Il grande movimento di rivendicazione delle terre, intensificatosi negli anni Venti del Novecento contro la proprietà Doria, incise significativamente sull’economia del latifondo che risentì molto delle occupazioni contadine e degli incendi boschivi.
Nonostante il clima teso che si era venuto a creare, l’amministratore Croce continuò ad apportare nella proprietà latifondista una serie di interventi modernizzatori per far fronte alla continua diminuzione della redditività del latifondo.
Ma nella prima metà degli anni Trenta, dopo circa quattordici anni di intensa attività modernizzatrice, sul latifondo cominciò ad aleggiare un’atmosfera di instabilità economica che si manifestò, di lì a breve, con un irrefrenabile calo produttivo.
Per la difficile reperibilità del materiale d’archivio dell’azienda Doria, non è semplice capire quale sia stata la causa certa della crisi produttiva e quali siano stati gli effetti della crisi. La prima spiegazione è la contraddizione con la situazione sociale della zona, le consuetudini che non si possono distruggere e quindi il conflitto con i contadini. Questo emerge con chiarezza dalla documentazione.
Poi ci sono le spiegazioni che oggi alcuni testimoni ci danno, i quali, essendo lavoratori legati a Croce, non sono imparziali. Un testimone parla di eccessiva sensibilità sociale dell’amministratore Croce che avrebbe tentato di garantire un lavoro ed un sostegno economico a troppe persone, in termini non compatibili con le possibilità di sviluppo della proprietà Doria.
Ciò spiegherebbe come mai la fine dell’era Croce sia stata vissuta con rammarico da coloro i quali avevano per quattordici anni goduto della generosità dell’amministratore del principe Doria, ricavandone non solo vantaggi economici, ma anche un senso di fiducia e speranza nel futuro.
Secondo altri, la situazione precipitò a causa dell’improvviso allontanamento del Croce. L’uscita di scena di Luigi Croce avrebbe privato il latifondo dell’opera di una figura competente e capace, oltre che consapevole della necessità di innovare le tecniche agricole gestionali che fino ad allora avevano retto le sorti della proprietà Doria.
Venuta a mancare la mente gestionale della modernizzazione, la nuova Amministrazione generale, con a capo il ragioniere Vito Bochicchio, apportò alcune trasformazioni al sistema produttivo. La gestione dei sette poderi concessi precedentemente a mezzadria dall’amministratore Croce rimase invariata, mentre le trasformazioni interessarono sostanzialmente l’organizzazione del podere della Scuola Agraria, a conduzione diretta.
Le modifiche ad esso apportate furono: l’interruzione di ogni attività zootecnica con contestuale cessazione di ogni forma di allevamento, bovino, equino e suino; il rifrazionamento dell’intero podere in piccolissime quote, date in concessione a canone parziario (fig. 4, riquadro bianco).
Come già accennato, la concessione delle quote in base al contratto a canone parziario si rivelò controproducente, perché dall’eccessivo frazionamento della terra non si poteva ricavare nessun utile e, di conseguenza, nessun aumento della redditività latifondista.
Ovviamente, l’assenza di una guida capace mise in serie difficoltà anche i mezzadri, a cui Croce aveva affidato la conduzione dei sette poderi mezzadrili.
Costoro non erano, infatti, ancora in grado di gestire da soli i poderi senza un aiuto tecnico.23
Fig. 4 - Piano del Conte
193524
A prescindere da quale sia stata la vera causa scatenante della crisi produttiva, è certo che le dimissioni dell’amministratore Croce posero fine all’estensione dell’opera di bonifica all’intero latifondo e, dove la bonifica era già stata realizzata (Piano del Conte), non si assistette alla comparsa dei segnali di ripresa. Anzi, si registrò una tendenza al regresso.
Preliminarmente occorre, però, chiedersi se la crisi produttiva abbia potuto causare il declino del latifondo. Se ci affidassimo ad un’analisi superficiale, il declino potrebbe essere visto semplicemente come una conseguenza della crisi produttiva. Colpo decisivo a un declino già in atto furono le lotte e la Riforma agraria.
3.2 Dall’occupazione delle terre alla Riforma fondiaria
All’indomani dell’ 8 settembre del 1943, nel cuore del Marchesato di Crotone, i braccianti agricoli, spinti dalla fame e in agitazione per le terre comuni usurpate dai grandi proprietari terrieri, invasero e occuparono spontaneamente le terre dei latifondi. La rivolta si estese subito dalla Calabria a tutto il Mezzogiorno, soprattutto nelle tradizionali aree latifondistiche di Lazio, Puglia, Lucania e Sicilia.
Questi movimenti per la rivendicazione delle terre, portati avanti dai contadini meridionali nella primavera e nell’autunno del ’44, portarono il ministro dell’Agricoltura e Foreste, il comunista Fausto Gullo, ad emanare il 19 ottobre del 1944, per legittimare le avvenute occupazioni, un decreto per la concessione a cooperative di contadini delle terre incolte o mal coltivate, di proprietà privata o di Enti pubblici.
Nonostante l’applicazione del decreto Gullo, agitazioni e tumulti continuarono a susseguirsi nelle campagne del Mezzogiorno, per l’ostinata resistenza dei latifondisti a cedere le terre alle cooperative contadine che, per reclamare il loro diritto, andarono ad ingrossare le file delle organizzazioni sindacali (Camere del lavoro e Federterra), dedite all’assistenza e alla mobilitazione dei contadini.
Le rivendicazioni dei contadini, dei reduci e delle loro famiglie per il "bene" terra continuarono in crescendo nelle terre latifondiste, con un’accelerazione nel 1947, data di estromissione del partito comunista dal governo De Gasperi.
Nell’ottobre 1949 si verificò un grande movimento di occupazione delle terre, guidato dal partito comunista. Molte le cause concorrenti: l’articolo 7 del ricorso dei proprietari terrieri - appartenenti al partito di maggioranza, la DC - incentrato sul diritto dei proprietari di reclamare la loro terra, qualora i contadini avessero violato le condizioni di concessione; la conseguente perdita, da parte delle cooperative contadine, delle terre conquistate negli anni precedenti; le domande ignorate delle cooperative presentate alle Commissioni per l’assegnazione dei fondi terrieri.
Se fu l’area materana il fulcro delle lotte contadine in Basilicata, è importante ricordare che anche i contadini delle campagne potentine si mobilitarono per la conquista delle terre. Il giorno 30 novembre 1949, i rapporti dei Carabinieri dei comuni di Anzi, Picerno, Bella, Tito, Rionero in Vulture, Melfi e Venosa comunicarono alle autorità giudiziarie di Potenza che la provincia era in subbuglio: le prime occupazioni erano avvenute.
Il giorno successivo, altri comunicati giunsero alle autorità giudiziarie, riferiti all’estensione del movimento di rivendicazione nei comuni di Tolve, Rapolla e Atella, e poi, a seguire, fino alla metà di dicembre, nei Comuni vicini: Acerenza, Ruoti, Oppido Lucano, Lavello, Montemilone, Corleto Perticara, Forenza, Pa25
lazzo San Gervasio, San Fele, Pietragalla, Cancellara, Avigliano, Senise e Muro Lucano. I rapporti parlavano di contadini ed artigiani guidati contro le proprietà terriere da capi spontanei o da esponenti appartenenti ai partiti di sinistra o alle organizzazioni sindacali, e di occupazioni essenzialmente simboliche, limitate alla picchettatura delle zone ritenute occupabili e con effettivo inizio di ripartizioni e dissodamenti delle terre nei soli comuni di Ruoti, Forenza, Rionero, Atella, Bella, Avigliano, Corleto e Tito.
Ad Avigliano l’agitazione si concentrò ancora una volta sulla grande proprietà Doria. Il 7 dicembre 1949, ventisette contadini marciarono su Piano del Conte, tentando di dissodare otto ettari di terreno a pascolo, ma furono subito bloccati dalle Forze dell’Ordine e denunciati a piede libero all’autorità giudiziaria.
Due giorni dopo la prima occupazione, ventiquattro contadini irruppero in contrada Bosco ed iniziarono a zappare quattro ettari di terreno incolto. Passò un giorno esatto e anche questa azione si concluse nel nulla: i terreni furono sgombrati e i ventiquattro contadini denunciati. Nonostante questi interventi repressivi, il pomeriggio dell’11 dicembre seguì l’occupazione simbolica di cinque ettari di terreno incolto in contrada Toppa, da parte di diciotto contadini che, costretti dai Carabinieri, il mattino successivo abbandonarono le terre occupate con una denuncia a loro carico.
Nelle relazioni dei Carabinieri risultano denunciati sessantanove contadini, ma non vengono mai indicati organizzazioni sindacali o partiti politici che li rappresentassero.
Eppure, nella seconda metà del 1945, Domenico Bochicchio, figlio di Michelarcangelo Bochicchio capolega dell’Unione Agricola Rurale di Lagopesole - la lega contadina che aveva invaso le terre del latifondo nel primo dopoguerra - aveva costituito a Lagopesole, legandosi alla tradizione del padre, un’organizzazione politica di stampo socialista e di orientamento riformista, denominata "Fronte di Azione Nazionale", intorno alla quale si raccolsero centinaia di contadini fittavoli del principe Doria.
Lotte, occupazioni e ripartizioni delle terre nei territori latifondisti si imposero all’attenzione di tutta Italia, forzando così il Governo italiano a riprendere il 26
progetto di Riforma agraria propagandato dai democristiani e a promulgare dei provvedimenti legislativi straordinari.
Ispirati all’art. 44 della Costituzione italiana, i provvedimenti legislativi emanati furono tre: la legge 12 maggio 1950, n. 230, la cosiddetta "Legge Sila", per la colonizzazione dell’Altopiano della Sila e dei territori jonici limitrofi; la legge 21 ottobre 1950, n. 841, conosciuta come "Legge Stralcio", attraverso la quale si estendeva l’ambito applicativo della Legge Sila - previe opportune modifiche - ad altri territori suscettibili di trasformazione; la legge 27 dicembre 1950, n.104, varata dal Governo Regionale della Sicilia per la riforma dei latifondi dell’isola.
In definitiva, le zone sottoposte alle leggi di Riforma furono il Delta Padano, dove si riscontravano situazioni sociali disagiate, il Fucino, alcune zone della Campania e vaste plaghe della Maremma tosco-laziale, della Lucania, delle Puglie, del basso Molise, della Sila e delle Isole, perché dominate dalle proprietà terriere latifondiste.
In altre parole, come spiega il Senatore Decio Scardaccione (l’intervista è riportata integralmente in appendice), per anni direttore dell’Ente Riforma in Puglia, Basilicata e Molise:
[…] la Riforma agraria interessò le zone dove c’era una maggiore concentrazione di proprietà fondiaria e un maggiore bracciantato agricolo, con la relativa disoccupazione. Allora furono espropriati terreni in Puglia, i terreni nella piana di Foggia fino al Subappennino, i terreni nella zona di Metaponto, i terreni nella Valle dell’Ofanto, fino ad arrivare sulla nostra collina, nelle zone delle grandi proprietà di Lagopesole, Genzano, Forenza. Fu scartata, invece, la Montagna lucana per quanto riguardava tutto il Lagonegrese e anche la zona interna verso Potenza, perché non c’erano queste grandi concentrazioni [fondiarie] e perché non c’erano grandi disponibilità di braccia. […]
L’art. 44 della Costituzione sancisce che: "Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove e impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostruzione delle unità produttive, aiuta la piccola e media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane".27
3.3 La Riforma agraria
L’ obiettivo principale della Riforma, secondo il Senatore Scardaccione,
[…]era quello di distribuire la terra ai contadini, che si trovavano ad essere scarsamente occupati dopo la guerra. Molti erano reduci dalla guerra e c’era il problema di come occupare queste persone. C’era un fermento fra loro, ci fu l’azione d’occupazione delle terre e si delineò pure l’azione del Partito Comunista. Siccome prese il sopravvento la Democrazia Cristiana […] si pensò di dar vita ad ampi poderi, a tante piccole aziende date in proprietà alla singola persona, in modo che fosse il singolo uomo a poterle gestire, a poter decidere quello che doveva fare e crescere in maniera individuale ed espansiva.[…] L’obiettivo era quello di fare in modo che gli individui potessero liberarsi dallo stato di servitù, e che potessero crescere come persone che lavoravano per sé e per la propria famiglia in maniera collettiva, non come fatto d’impegno diretto, ma come solidarietà tra le persone. […] Un altro compito della Riforma era quello di dare non solo la proprietà delle terre, ma anche una casa decente ai contadini.[…]
La Riforma agraria ("fondiaria" nella fase applicativa) si articolò, perciò, in un’opera di espropriazione, trasformazione ed assegnazione delle terre, istituendo Enti di Riforma zonali e di territorio (Ente Sila, Ente Delta, Ente Fucino etc.) al fine di redistribuire la proprietà, promuovere lo sviluppo, superare l’arretratezza, sollevare la pressione sul bracciantato agricolo.
I criteri dell’esproprio furono differenziati da zona a zona. Nel territorio considerato dalla legge Sila, l’espropriazione interessò i proprietari terrieri aventi, su tutto il territorio nazionale, una proprietà superiore ai 300 ettari di superficie coltivabile, ma esentò dall’esproprio tutti i terreni non suscettibili di trasformazioni, perché già effettuate o perché effettuarle non avrebbe comunque consentito la messa a coltura.
Viceversa, per i territori rientranti nell’ambito applicativo della legge Stralcio, vennero espropriate solo le proprietà aventi un reddito dominicale superiore a lire 30.000, determinando la quota da espropriare ad ogni proprietario in base a parametri stabiliti nella tabella allegata alla legge Stralcio stessa.
La tabella penalizzava più pesantemente quelle terre coltivate con criteri estensivi e meno gravemente le aziende commerciali a coltura intensiva, in quanto l’incidenza dell’esproprio era tanto più alta quanto più basso era il reddito imponibile medio per ettaro, direttamente proporzionale alla qualità del terreno.
Vennero poi escluse dal raggio d’azione della legge Stralcio le aziende modello, caratterizzate da un’alta produttività e dall’impiego di macchine agricole.
Occorre specificare che la logica applicativa delle leggi di Riforma - compresa quella per la regione Sicilia - faceva sì che solo le terre meno fertili venissero espropriate ai proprietari terrieri e fossero assegnate alle famiglie contadine.
Stabilite le superfici da espropriare, il trasferimento delle proprietà agli Enti di Riforma divenne operativo tramite appositi decreti del Presidente della Repubblica che, oltre a designare i terreni da espropriare, stabilivano anche l’indennità di espropriazione.
In Basilicata, l’Ente attraverso il quale trovò applicazione la Legge Stralcio fu l’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania. All’interno dell’Ente venne creata una sezione speciale per la Riforma fondiaria in Puglia, Lucania e Molise.28
3.4 I contratti di assegnazione dei terreni
Alla fase di espropriazione seguirono il compimento delle opere di bonifica e di trasformazione fondiaria più urgenti ed infine l’assegnazione, da parte degli Enti di Riforma regionali, delle terre espropriate alle famiglie contadine, mediante un contratto di vendita, con clausola di pagamento rateale del prezzo in 30 annualità, con la riserva del dominio dell’Ente fino al completo pagamento.
I fondi assegnati erano dimensionati alla capacità lavorativa del richiedente e della sua famiglia. Inoltre, per quanto riguarda la fissazione del prezzo, veniva effettuata un’indagine completa per ciascun podere o quota, volta a determinare il prezzo di vendita all’assegnatario. Prima dell’assegnazione definitiva, l’assegnatario doveva dimostrarsi - nell’ambito di un periodo di prova triennale - idoneo ad assolvere i suoi doveri e ad impegnarsi a seguire, nelle coltivazioni, le regole tecniche dell’Ente, e a far parte - per i primi vent’anni dall’assegnazione - di cooperative e consorzi promossi dall’Ente stesso per garantire l’assistenza tecnica ed economico-finanziaria alle imprese agricole.
All’atto dell’assegnazione, l’assegnatario/acquirente si impegnava a rispettare una serie di vincoli: innanzitutto l’inalienabilità dei terreni assegnati, limitatamente ai primi trent’anni dall’assegnazione. Prima dei trent’anni era ammessa la vendita solo a favore dell’Ente assegnante o di coltivatori diretti, con l’indivisibilità del fondo assegnato, sia per atto tra vivi che mortis causa.
In caso di morte dell’assegnatario prima del completo pagamento del prezzo, il fondo andava a parenti in linea retta o, in mancanza, al coniuge non separato, se in possesso dei requisiti richiesti.
In caso contrario, il fondo ritornava nella disponibilità dell’Ente assegnante, mentre agli eredi spettava il rimborso delle quote versate a suo tempo dall’assegnatario, più una somma forfetaria a titolo di indennità per i miglioramenti apportati al fondo nel periodo intercorrente tra l’assegnazione e la sua morte. Era vietato effettuare l’eventuale vendita ad un prezzo superiore a quello ritenuto congruo dal competente Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura.
I contratti includevano due tipi di assegnazioni: il podere, cioè un appezzamento abbastanza esteso con una dimensione media nazionale (riferita ai comprensori di Riforma) di 9 ettari, per i contadini senza terra; e la quota, cioè un appezzamento poco esteso con una dimensione media nazionale di 2,5 ettari, congegnata come un’aggiunta alla scarsa terra di proprietà delle famiglie.29
3.5 L’espropriazione del latifondo Doria
In applicazione della Legge Stralcio, nel gennaio del 1953 furono espropriati alla famiglia Doria Pamphilj 1.888 ettari, per un totale di 64.548.000 lire.
Il trasferimento della proprietà Doria all’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania avvenne con l’emanazione del decreto Presidenziale del 28 dicembre 1952, mentre la presa di possesso dell’esproprio, da parte dell’Ente Riforma in Puglia, Lucania e Molise, avvenne il 24 gennaio 1953.
Così tramontò, agli inizi degli anni Cinquanta, dopo poco più di quattro secoli, il vasto latifondo agrario di Lagopesole. Le parole del signor Bonaventura Sanza, dirigente dell’Ente Riforma in Puglia, Lucania e Molise, ci aiutano a ripercorrere meglio l’azione dell’Ente in questa area della Basilicata, ma soprattutto l’ultimo periodo di vita del latifondo Doria:
[…] Nel 1952 iniziai a lavorare presso l’Ente di Riforma per lo sviluppo dell’irrigazione e trasformazione fondiarie in Puglia, Lucania e Molise. I primi incarichi che mi furono affidati furono quelli di rilevare lo stato di possesso dei terreni espropriati nella Montagna potentina, specialmente nei Comuni di Ruoti, Bella ed Avigliano.[…] L’analisi dei rilievi fatti evidenziò che c’era una larga frammentazione dei terreni espropriati a causa delle diverse situazioni possessorie, perciò si rendeva necessario un lavoro d’accorpamento di queste particelle facenti capo a possessori diversi, al fine di creare un’azienda più organica.[…]
Ad opera del professore Manlio Rossi-Doria e di alcuni tecnici dell’Università di Napoli, furono iniziati i lavori per la predisposizione dei piani di sviluppo dei latifondi espropriati nei comuni di Avigliano, Bella e Ruoti.
Considerato l’eccessivo strato di frammentazione si pensò, innanzitutto, a ridurre il numero degli appezzamenti da assegnare ai contadini già possessori degli stessi terreni. Fu redatta una scheda individuale dei vari possessori, che riportava le generalità, lo stato di famiglia, le unità lavorative ed i terreni posseduti, per avere un quadro chiaro dei reali bisogni delle diverse famiglie. Accertato lo stato di possesso, si pensava all’abitazione. Secondo le norme stabilite dall’Ente Riforma in Puglia, Lucania e Molise, poteva considerarsi podere soltanto un fondo superiore ai quattro ettari: qui gli assegnatari avevano il diritto di costruirsi una casa colonica. Chi possedeva meno di quattro ettari, aveva invece la possibilità di costruire una piccola casa di appoggio, con un vano e un piccolo ricovero per gli animali.
Laddove esistevano dei poderi, furono costruite le più essenziali infrastrutture sociali (chiese, scuole, centri di servizi).
Continua Sanza:
[…] Oltre a questo problema di frammentazione, c’era anche il problema della limitatezza dei terreni a disposizione dei contadini, perciò si rendeva necessario alleggerire la presenza di manodopera sul territorio […]
In applicazione del decreto del Ministro per l’agricoltura e per le foreste emanato il 17 aprile 1968, l’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali provvide ad espropriare, ai sensi degli artt. 2 e 4 della legge 18-8-1962, n.1360 per l’esproprio e l’acquisto di terreni montani abbandonati, circa 2812 ettari della proprietà boschiva della famiglia Doria Pamphilj per un prezzo complessivo di quattrocentoquarantamilioni. Il resto della proprietà boschiva fu venduto in quegli stessi anni privatamente. Figurava nel comprensorio espropriato anche il Castello svevo che, costruito su una collina, aveva dominato per più di quattro secoli sull’intero latifondo. Fu questa la fine del latifondo Doria Pamphilj.30
[…]Questo problema d’alleggerimento del carico di manodopera si poteva risolvere o comprando dei terreni all’esterno, se erano disponibili, oppure trasferendo chi aveva la volontà d’emigrare, in altre zone interessate dalla Riforma, dove c’era più disponibilità di terreni […]
Il primo tentativo di sostegno all’emigrazione interessò i terreni di Scanzano in Provincia di Matera; successivamente, nel novembre del 1952, quelli di Metaponto. Tutti questi terreni erano poco popolati, perché a conduzione diretta.
Il trasferimento di popolazioni rurali dalla montagna non era ben visto, per motivi di ordine campanilistico, perché si voleva che dette terre venissero occupate dalla gente del posto.
Nel 1954 si ebbe il primo esodo verso Scanzano, perché l’Amministrazione dell’Ente Riforma assegnò trenta poderi nella zona della tratta ferroviaria Metaponto-Sibari, detta Terza Madonna.
Furono occupati tutti e trenta i poderi assegnati, mentre gli altri andarono alla gente del Materano e alle famiglie leccesi che erano andate a coltivare il tabacco nel Metapontino.
Alcune famiglie della montagna potentina, scoraggiate, rinunciarono all’assegnazione; altre invece, desiderose di trasferirsi in quella zona, occuparono i poderi lasciati dalle famiglie assegnatarie che fecero ritorno ai luoghi di origine o li abbandonarono per emigrare verso il Nord.
Nell’ottobre del 1953 fu rilevato lo stato di possesso dei terreni espropriati al principe Doria Pamphilj, nei cui possedimenti esistevano problemi complessi, sia per la frammentazione eccessiva, sia per la popolazione esistente, che gravitava nel territorio del vecchio latifondo.
Secondo la testimonianza di Sanza:
[…] In aggiunta, c’erano problemi dei contadini che avevano comprato dai Doria e da altri proprietari.[…]Prima dell’opera della Riforma, il principe Doria provvide a fare delle vendite dei terreni, ai sensi della legge della formazione agricola delle unità contadine (infatti molti terreni della zona di Montemarcone, della zona di Frusci, Monte Carmine, Montecaruso e della zona di Sant’Angelo erano stati già acquistati regolarmente), l’Ente espropriò solo i terreni che erano rimasti ancora in ditta Doria, così che avemmo particelle espropriate e particelle non espropriate. I problemi nascevano quando capitavano dei pezzettini sparsi di pochi ettari, certe volte erano solo di quaranta ettari, in mezzo ad una zona tutta acquistata legalmente. […]31
3.6 L’espropriazione dell’Azienda agraria di Piano del Conte
L’Azienda di Piano del Conte, ormai in declino, non fruì dell’esonero garantito dalla legge Stralcio alle aziende modello e rientrò nell’esproprio. Questo anche se, come ci racconterà il signor Sanza, per via dei poderi mezzadrili, era un’isola a sé stante rispetto all’intero latifondo caratterizzato, come si è detto, da un’eccessiva polverizzazione dei terreni dati in fitto:
[…] A Piano del Conte la situazione era un po’ diversa, perché le mezzadrie che erano presenti avevano una superficie molto più rilevante rispetto a tutto il resto del possesso, per cui più che di ricomposizione fondiaria si trattò di una suddivisione tra tutti i figli di ogni famiglia di mezzadri che avevano già costituito una famiglia propria, ed ecco perché sono venuti fuori, dalle sette mezzadrie, diciassette poderi. Infatti, dal podere di Serra dell’Olmo Primo abbiamo ricavato cinque poderi; da Serra dell’Olmo Secondo ne abbiamo ricavato due; dal podere Lago del Monaco tre; dal Mandria Vecchia due; dal podere Chicone due; dal podere dei fratelli Leonardo e Francesco Viggiano uno, mentre dal podere Cornaleta ne abbiamo ricavato tre.[…]
I sette poderi mezzadrili, con piccoli interventi di ricomposizione fondiaria, furono assegnati in questo modo: i cinque poderi ricavati dal podere Serra dell’Olmo 1°, del mezzadro Domenicantonio Viggiano (e di Vito, suo fratello minore, coassegnatario del medesimo podere), furono assegnati tutti alla famiglia di Domenicantonio. Uno alla sua vedova, Donata Maria Colucci, e gli altri quattro ai figli Giuseppe, Antonio, Leonardo e Francesco (figg. 5 e 6). Parte del podere di Antonio fu ricavata da un’espropriazione di alcuni tomoli che erano affidati prima a fittavoli; quello di Leonardo fu interamente ricavato dal podere Serra dell’Olmo 2°, del mezzadro Vito Gianturco; mentre quello di Francesco fu ricavato in parte dal podere di Vito Gianturco e in parte dal podere del mezzadro Vito Filadelfia.
Come illustra la figura 6, da questa suddivisione del podere Serra dell’Olmo 1° fu esclusa la vedova di Vito Viggiano, Maria Carmela Galliani che, però, ritroviamo più tardi assegnataria di un fondo ricavato dal vecchio podere della Scuola Agraria.
L’espropriazione, e poi l’assegnazione, di una parte del podere Serra dell’Olmo 2° alla famiglia Viggiano comportò l’impossibilità di realizzare tre poderi per i tre figli del mezzadro Gianturco, i quali si presentavano con i requisiti richiesti per l’assegnazione; pertanto ad uno dei tre figli, Antonio, fu assegnato un podere a Jazzi Vernili creato appositamente per lui, mentre gli altri due figli, Vincenzo e Salvatore, dovettero dividersi il terreno che avanzava dalla suddivisione del podere Serra dell’Olmo 2° (figg. 5 e 6).
I poderi dei fratelli Tommaso, Domenico e Antonio Filadelfia, furono ricavati tutti e tre dal podere originario Lago del Monaco (figg. 5 e 6). Il podere Mandria Vecchia fu diviso tra i fratelli Donato e Salvatore Mancusi (figg. 5 e 6), mentre il podere Chicone, del mezzadro Angelo Vito D’Andrea, fu diviso tra il figlio Canio e la nuora Vita Crescenzia Rosa, vedova del figlio Vincenzo (figg. 5 e 6).
Il podere Solagna, dei fratelli Leonardo e Francesco Viggiano, fu assegnato ad un figlio di Leonardo (figg. 5 e 6), mentre a Francesco fu assegnata una parte del podere Cornaleta (fig. 6) che era stato invece tenuto da un altro mezzadro, Domenicantonio Filadelfia, ed era attualmente condotto dai figli Salvatore e Pietro 32
(fig. 5). Salvatore Filadelfia ebbe l’altra parte del podere Cornaleta, ingrandita da un lato in seguito al dissodamento di un pascolo attiguo, ma ridimensionata dall’altro, per la creazione di una quota (fig. 6). Pietro Filadelfia ebbe invece un fondo creato nel vecchio podere della Scuola Agraria (fig. 6, riquadro bianco).
Così, malgrado la Riforma avesse come obiettivo l’assegnazione ai contadini di un appezzamento sufficientemente esteso per mantenere le loro famiglie e la creazione di un’unità economica produttiva, l’estensione dei poderi fu minore che in precedenza. Infatti si passò da poderi con una dimensione media di circa 22 ettari ad altri con una dimensione media di circa 9,5 ettari,dotati di casa, stalla-fienile, concimaia, pozzo artesiano, forno, pollaio, frutteto e vigneto, oltre che di una cavalla avelignese destinata ai lavori agricoli e di due bovine da latte.
Ora, tenendo conto di queste divisioni ed assegnazioni dei poderi, è interessante notare (figg. 5 e 6) che la realizzazione dei poderi assegnati a Pietro Filadelfia, Maria Carmela Galliani e ad Antonio Gianturco, tratti dall’antico fondo della Scuola Agraria - in gestione diretta fino al 1935 e poi ceduto a canone parziario - ebbe luogo con l’espropriazione di alcuni tomoli di terra ad altrettanti affittuari che le coltivavano da quasi un ventennio (1935-1953).
Una parte del fondo della Scuola Agraria fu, invece, oggetto di ricomposizione fondiaria. Infatti, come possiamo osservare nella figura 6, furono realizzati altri quattro poderi e due quote a Jazzi Vernili, mentre tutto il resto del fondo rimase interamente diviso in tanti piccolissimi appezzamenti e l’Ente Riforma confermò alla maggior parte dei piccolissimi affittuari del principe Doria lo "stato di possesso", richiedendo solo il rimborso degli oneri fondiari, perché l’intento era quello di procedere successivamente al completo appoderamento o quotizzazione del fondo, e nell’immediato all’assegnazione definitiva delle quote e dei poderi realizzati.
Furono subito stipulati i contratti definitivi, che risalgono agli inizi degli anni Sessanta, ma successivamente l’appoderamento del territorio, rimasto diviso in tanti piccoli appezzamenti, non fu realizzato perché poca era la terra, e tanti erano gli aventi diritto ad un podere o a una quota. Pertanto rimase invariato lo stato di possesso.
Per stato di possesso si deve intendere la "detenzione" della terra da parte degli affittuari dei piccolissimi appezzamenti, assegnati con contratti a canone parziario dall’Amministrazione Doria.33
Fig. 5 - Piano del Conte
195334
Fig. 6 - Piano del Conte 196035
3.7 Le opere di trasformazione fondiaria a Piano del Conte
Per quanto riguarda le opere di trasformazione fondiaria a Piano del Conte, ci racconta il signor Sanza che:
[…] l’Ente si obbligò per tutti i poderisti – chi aveva avuto in assegnazione almeno quattro ettari – alla costruzione delle case coloniche con annessi per la bassa corte e stalle; alla dotazione di due bovine di razza Bruna-Alpina e di una cavalla Avelignese; all’impianto di un meleto in tutti i poderi – danneggiati dalla bruciatura delle stoppie; alla costruzione di una serie di pozzi artesiani collocati strategicamente nelle zone dove si trovava l’acqua. Molte delle opere di trasformazione agraria, nelle zone collinari, erano dirette all’impianto di vigneti, uliveti e frutteti. Tuttavia nelle zone di montagna, essendo prevalentemente ad indirizzo zootecnico-cerealicolo, il problema dei vigneti non ha avuto grossa rilevanza, tant’è che noi abbiamo impiantato solo piccole aree a vigneto, oltre ai vigneti preesistenti. La zona prevalentemente a vigneti è stata quella di Piano del Conte, anche se non era tanto adatta per il vigneto. […] A Piano del Conte, a partire dal ’55, fu avviato un campo sperimentale dove ora c’è il podere di Colangelo Donato. Coltivammo la barbabietola da zucchero in alta montagna e diverse varietà di grano tenero, poiché a Piano del Conte si coltivava più grano tenero che duro. Questo esperimento andò avanti per due o tre anni ed era controllato dall’Università di Bari in convenzione con l’Ente. Avevamo parcellizzato tutta la zona ed impiegavamo, per la coltivazione, la manodopera giornaliera residente sul posto. […] I risultati furono interessanti perché individuammo le varietà di grano che più andavano bene. A quell’epoca andavano bene l’Ovest e l’Est Motim, due varietà di grano tenero che in genere noi suggerivamo ai contadini quando dovevamo dargli le sementi. Anche le barbabietole da zucchero diedero buoni risultati, ma la loro coltivazione non prese piede perché non era abbastanza redditizia.[…]
Ma, aggiunge il nostro testimone:
[…] a rendere ancor più particolare l’azione dell’Ente Riforma a Piano del Conte fu il possesso, da parte dei mezzadri, di animali di proprietà del Principe […]. L’Amministrazione dei Doria pretese dai mezzadri il livellamento dei conti. Pertanto fu tolto tutto il bestiame ai mezzadri che si trovavano in una situazione debitoria e l’Ente dovette subito provvedere a dare loro una piccola scorta di bestiame (due capi bovini per ogni famiglia assegnataria). Questo per quanto riguarda i bovini. Per quanto riguarda gli equini, a Piano del Conte c’era la presenza del cavallo Avelignese di razza pura. E siccome, anche in questo caso, veniva a mancare un servizio che l’Amministrazione Doria offriva ai cittadini, cioè una scuderia dove venivano portati gli stalloni da Santa Maria Capua Vetere per la monta stagionale di tutte le cavalle del contado, si dovette provvedere a realizzare una scuderia per ospitare questi cavalli che dovevano arrivare ogni primavera da Santa Maria Capua Vetere a servizio di tutta la popo36
lazione equina del contado. Fu Gigi Croce, l’amministratore del principe Doria, che portò il cavallo Avelignese nella zona, stabilendo un contatto con Santa Maria Capua Vetere. Questo discorso era già avviato e l’Ente non poteva far venire meno qualcosa che l’Amministrazione Doria già offriva. Ciò è stata una cosa di grande importanza per lo sviluppo dell’allevamento del cavallo Avelignese, proveniente dall’Austria, tant’è che, tra le altre cose, l’Ente ha importato, sempre con la prospettiva di assegnarle ai contadini di Piano del Conte e delle frazioni limitrofe, delle cavalle avelignesi in purezza. Il primo gruppo di trenta cavalle arrivò nel dicembre del ’55, un gruppo di sedici cavalle nel marzo del ’56. Le prime trenta furono assegnate a Piano del Conte e alle contrade Masi, Signore, Filiano e Scalera; quasi tutti i poderisti di Piano del Conte ebbero una cavalla. Le altre sedici cavalle furono assegnate, oltre che nella zona di Lagopesole, soprattutto a Stigliano e nel comune di San Mauro Forte, in provincia di Matera, perché là c’era un nucleo di cavalli avelignesi. […] Le cavalle vennero date a chi possedeva un appezzamento di terreno, ne faceva richiesta e s’impegnava a contribuire all’acquisto del cavallo. Tuttavia gli assegnatari di Piano del Conte furono esonerati dall’obbligo di presentare la domanda, perché a Piano del Conte c’era il vecchio nucleo della stazione di monta. […] Quindi avevamo, nei confronti della mezzadria dei Doria, il problema del bestiame. […] A Piano del Conte c’era un problema ulteriore: l’Ente riteneva che i terreni dove c’erano i fabbricati erano anche da espropriare, mentre l’Amministrazione del Principe riteneva che non fossero da espropriare. Alla fine l’Ente occupò i terreni dove c’erano i fabbricati, ricomprendendo nel verbale di possesso le stalle, i silos, la scuola, la chiesa e le abitazioni.[…]
La scuola, le stalle, così come le abitazioni, furono tutte ristrutturate e adibite ad uffici, centri di servizi e alloggi, in buona parte occupati da alcuni dipendenti dell’Ente Riforma; l’attiguità del porcile a due poderi, a quello di Maria Carmela Galliani e del suo confinante (fig. 6), consentì all’Ente di ovviare alla costruzione delle case coloniche.
3.8 I nuovi modelli delle famiglie mezzadrili
Inserita nella storia della struttura delle famiglie mezzadrili, la Riforma, suddividendone i poderi e quindi i loro nuclei produttivi tra i figli dei mezzadri, aprì la via ad un’organizzazione familiare di tipo nucleare. Si rovesciò così quell’organizzazione di famiglia estesa patriarcale che aveva caratterizzato i poderi di Piano del Conte.
Dall’analisi delle genealogie mezzadrili si può notare però che, all’interno delle famiglie nucleari, permane comunque una certa tendenza ad estendersi adattandosi all’attività economica legata, questa volta, a piccoli poderi dagli scarsi proventi. La soluzione viene dunque trovata indirizzandosi verso le nuove risorse che provengono dall’esterno: impieghi pubblici ed emigrazione.
I figli collaborano con i genitori fino all’adolescenza o alla giovinezza. Poi smettono di lavorare nel fondo per indirizzarsi verso occupazioni extra-aziendali, pur rimanendo la maggior parte dei figli maschi a vivere in una seconda casa costruita sul podere paterno o, più semplicemente, in abitazioni indipendenti, ricavate dalla casa paterna o dai fabbricati già esistenti.
Negli anni Sessanta l’edificio della Scuola Agraria, chiusa ormai da tempo, fu adibito a scuola elementare. 37
La famiglia poderile, come abbiamo già detto precedentemente, si allarga e si chiude di nuovo ai cambiamenti delle risorse come un ventaglio. Vediamone gli esempi.
Agli inizi degli anni Sessanta, Pietro Antonio Filadelfia si trasferì insieme alla moglie Vita Crescenzia Mancusi, sposata in seconde nozze, e ai suoi sette figli, fra cui quattro in grado di collaborare alle attività agricole, nel podere assegnatogli dall’Ente Riforma.
Non passò molto tempo che i primi due figli, Antonio e Nicola - nati dal primo matrimonio con Carmela Nigro - smisero di lavorare nel fondo e si indirizzarono verso occupazioni extra-aziendali, continuando comunque a vivere nella casa paterna che abbandonarono con il matrimonio.
A lasciare il podere fu anche Maria Luigia, figlia di secondo letto, che con il matrimonio, così come la tradizione voleva, seguì il marito.
Qualche anno dopo anche la figlia Lucia e altri due figli, Vincenzo e Vito, coadiuvanti nella conduzione del podere, lasciarono definitivamente la casa paterna: Lucia per matrimonio, mentre i fratelli, Vincenzo e Vito, per emigrare a Milano.
Rimase nella casa paterna l’ultimo figlio, Salvatore. Dopo il matrimonio, coniugò l’attività agricola con altre occupazioni per tornare in modo definitivo all’attività agricola, integrata dalla gestione in fitto di alcuni ettari di terreno e dall’allevamento bovino, nonché dal reddito extra-aziendale della moglie. Frattanto il podere ereditato dal padre fu diviso fra i fratelli con grave danno per le attività produttive (fig. 7).
Torniamo ora a Salvatore Filadelfia, fratello di Pietro Antonio e omonimo del nipote di cui ora abbiamo parlato.
Quando l’Ente Riforma gli assegnò il podere, le sue due uniche figlie Maria Luigia e Gesumina, avevano già contratto matrimonio e lasciato definitivamente la casa paterna. Attivamente coltivato, il fondo risulta incolto sin dalla fine degli anni ’60, rimanendo così solo luogo di residenza e di proprietà , essendo stato riscattato nel 1980 dall’Ente di Sviluppo Agricolo in Basilicata (già Ente Riforma).
Dopo la morte di Salvatore Filadelfia, avvenuta nel 1991, il podere fu diviso tra le due figlie (fig. 7) e risulta attualmente pressoché disabitato.
Particolare è il percorso della famiglia di Francesco Viggiano, ex mezzadro del principe Doria. Al momento dell’assegnazione del podere dall’Ente Riforma, i suoi primi tre figli, Donato, Antonio e Caterina, avevano già lasciato la casa paterna: Caterina con il matrimonio, Donato e Antonio per arruolarsi nell’arma dei Carabinieri. Dei sei figli rimasti a casa, collaboravano alle attività agricole solo quelli che erano in età lavorativa.
Nel 1964 Margherita, la quartogenita, dopo il suo matrimonio, lasciò la dimora paterna, e da questa data fino al 1974 i coniugi Viggiano videro partire ben quattro figli. Infatti, nel 1967 il figlio Vito ottenne la residenza nel comune di Milano.38
Fig. 7 - Piano del Conte
200339
L’anno dopo abbiamo altri due cambi di residenza, quella di Salvatore nel comune di Monza e quella di Carmine, arruolatosi nei Carabinieri, nel comune di Lecce. Successivamente partì l’ultimogenita, Lucia, che richiese la residenza nel comune di Monza nel 1974.
Chi rimase a vivere nella casa paterna, pur svolgendo un’attività extra-aziendale, fu Leonardo che continuò a vivere con i genitori anche dopo il matrimonio.
Con la morte di Francesco, avvenuta nel 1972, Leonardo subentrò, con l’assenso dei suoi fratelli, nel podere del padre, così come previsto nel contratto della Riforma fondiaria. Ancora oggi Leonardo, svolgendo comunque un’attività extra-aziendale, lavora insieme alla moglie nel podere, integrando all’attività agricola, esercitata anche sui terreni presi in fitto, un allevamento bovino. I suoi tre figli svolgono altre attività. Anche Francesco Viggiano, figlio dell’ex mezzadro Leonardo Viggiano, continua a lavorare insieme alla moglie nel podere assegnatogli dall’Ente Riforma, gestendo dei terreni presi in fitto e integrando nell’azienda - un’attività di allevamento bovino. Le scelte dei figli non sono indirizzate verso le attività agricole.
Possiamo notare processi che si incrociano: famiglie che tendono a nuclearizzarsi, parcellizzazione relativa delle proprietà con divisioni ereditarie, tensioni individuali dei membri delle famiglie verso altre risorse (emigrazione, impieghi pubblici). Tutto ciò conduce all’abbandono delle attività nella maggior parte dei casi.
Donato Mancusi, cercando di seguire la tradizione locale, ha lasciato il podere al figlio maschio, Vincenzo, che ha affiancato l’impiego pubblico all’attività agricola , continuando a vivere sul fondo ereditato dal padre. É la moglie, che risulta coltivatrice diretta, intestataria delle attività agricole.
Due delle figlie di Donato Mancusi hanno abbandonato Piano del Conte seguendo i mariti. La figlia Antonietta conduce invece il podere ereditato dalla suocera, Donata Maria Colucci, assegnataria della Riforma (fig. 6). I suoi due figli vivono nel podere ma risultano operai nel settore industriale.
Seguiamo ora il percorso dei quattro figli di Salvatore Mancusi. Le due figlie, Maria e Lucia, lasciano la casa paterna con il matrimonio; l’ultimogenito, Donato, emigra a Milano, mentre Vincenzo rimane a vivere all’interno del podere in una casa vicina a quella dei genitori, ma lavora come guardia giurata.
Dopo la morte del capostipite, il podere viene diviso tra i fratelli (fig. 7).
Il fondo risulta ora pressoché abbandonato dal punto di vista agricolo. Dei sei figli che Vita Crescenzia Rosa portò con sé nel podere assegnatole dall’Ente Riforma, quattro lasciarono il fondo: Assunta e Rosina sposandosi, e Canio e Antonio emigrando a Milano.40
Gli altri due figli, Angelo Vito e Domenico, continuarono a vivere e a lavorare come agricoltori, con le rispettive famiglie, nel podere materno, trasferendosi poco dopo nei rispettivi appezzamenti ereditati dalla divisione del podere (fig. 7) e integrando il reddito agricolo con altre attività.
Dei tre figli di Canio D’Andrea soltanto la secondogenita, Anna Maria, non avendo contratto matrimonio, continuava a lavorare e a vivere nel podere paterno, mentre gli altri due figli, Antonio e Lucietta, lasciarono il lavoro.
Lucietta si sposò e andò a vivere nel paese del marito; Antonio, invece, intraprese un’attività extra-aziendale, ma continuò a vivere, anche dopo il matrimonio, vicino ai suoi genitori.
Oggi, questo podere lo troviamo diviso (fig. 7) e coltivato dalla vedova di Canio e dai suoi tre figli: Antonio, Anna Maria e Lucietta.
Continuiamo con gli esempi.
Quando Maria Carmela Galliani si trasferì nel podere assegnatole dall’Ente Riforma, i suoi due figli, Caterina e Donato Antonio, già adulti, partecipavano alla conduzione del fondo. Dopo pochi anni dall’assegnazione, Caterina si sposò e lasciò la sua famiglia.
A sostituire le sue braccia nel fondo fu, l’anno successivo, Margherita, moglie del fratello Donato Antonio, il quale continuò a vivere e a lavorare nel podere della madre. Alcuni anni dopo, però, anche Donato Antonio lasciò la conduzione del podere per lavorare come usciere a Potenza.
Anche questo podere, scaduto il contratto dell’Ente, fu diviso e coltivato fra i due fratelli (fig. 7).
Per quel che riguarda le famiglie degli assegnatari Antonio, Giuseppe, Francesco e Leonardo Viggiano, Vincenzo, Antonio e Salvatore Gianturco, Antonio, Tommaso e Domenico Filadelfia, nessuno dei figli conduce i poderi come attività principale pur vivendo, la maggior parte, nelle case costruite nei fondi paterni. Le figlie si sono trasferite nelle case dei mariti.
Oggi i poderi di Antonio e Giuseppe Viggiano, Antonio Filadelfia e Salvatore Gianturco risultano indivisi tra i figli e pressoché incolti, come quelli di Antonio e Vincenzo Gianturco, Domenico e Tommaso Filadelfia e Francesco Viggiano, pur essendo stati questi ultimi divisi tra i figli (fig. 6 e fig. 7).
Leonardo Viggiano, cercando di rimanere fedele alla tradizione locale, ha lasciato il podere solo ad un figlio, Rocco, ultimogenito e secondo figlio maschio, che risulta cointestatario con la moglie, la quale è unica intestataria delle attività agricole (figg. 6 e 7).
Per quanto riguarda le quattro famiglie a cui l’Ente Riforma ha assegnato i poderi realizzati nel vecchio podere della Scuola Agraria (fig. 6), attraverso le fonti d’archivio e i colloqui privati è emerso che tutti e quattro gli assegnatari, provenienti dal circondario di Avigliano, discendevano da famiglie affittuarie a struttura patriarcale.
Anche in questo caso i figli hanno collaborato con i genitori fino all’adolescenza o alla giovinezza. In seguito hanno abbandonato il lavoro agricolo. I poderi, con un’ampiezza media di circa 6 ettari, sono stati divisi tra tutti i figli (fig. 7), che affittano o coltivano l’appezzamento ereditato ricavando così un introito marginale. Purtroppo non si hanno altre informazioni di fonti di archivio per poter affermare che si tratti di una tendenza generale di tutte le famiglie assegnatarie - del comune di Avigliano - che discendevano da famiglie affittuarie o piccole proprietarie.41
In conclusione, dall’analisi sull’evoluzione delle aziende è emerso che dagli inizi degli anni ’60, data della prima assegnazione, ad oggi tutte le aziende non sono mai state abbandonate. Anzi, nel corso degli anni e ancor prima del riscatto hanno subito delle trasformazioni: strutturali, quali riattamento delle stalle ad abitazioni, costruzione di nuove stalle e di nuove abitazioni; reddituali, cioè da aziende a conduzione familiare ad aziende part-time, dove il conduttore - per la maggior parte - e i suoi familiari hanno trovato lavoro e reddito al di fuori dell’attività agricola, per il crescente squilibrio tra reddito agricolo ed esigenze familiari.
Parallelamente si è osservato nei poderi di Salvatore Filadelfia, Francesco e Leonardo Viggiano un’integrazione dell’allevamento bovino con quello ovino, mentre in tutti gli altri poderi, l’allevamento ovino ha sostituito quello bovino. Inoltre, a partire dagli anni ’90, in seguito agli aiuti comunitari, in tutti i poderi il grano duro ha sostituito quello tenero nell’ordinamento colturale organizzato, dagli inizi degli anni ’60, sulla coltivazione di grano tenero, foraggio(trifoglio o erba), orzo e avena.

IL lavoro dei fanciulli nelle zolfatare siciliane
"La Sicilia nel 1876"
Per saperne di più - di Scuola Media I.C. Volterra
Lavorando al progetto "Rosso Malpelo" ci siamo imbattuti in un'inchiesta dell'ottocento
in cui si parla dello sfruttamento delle zolfatare siciliane. Abbiamo così scoperto che
nelle province di Caltanissetta e Girgenti molti minori venivano sfruttati nel lavoro delle
miniere, soprattutto nell'estrazione dello zolfo che si prendeva in gallerie larghe, dove
di rado entrava luce.
Questo lavoro era molto faticoso perché ragazzi, allora chiamati "carusi", dovevano
trasportare minerali da una galleria all'altra. I carusi avevano tra gli otto e gli undici
anni e lavoravano dalle otto alle dieci ore al giorno, mentre per i bambini che
operavano all'aria aperta il lavoro durava dalle undici alle dodici ore al giorno.
Il guadagno giornaliero di un ragazzo di
otto anni era di £ 0,50 e dei più piccoli e
deboli £ 0,35; i ragazzi più grandi, di sedici
e di diciotto anni, guadagnavano circa £
1,50 e talvolta £ 2 o 2,50.
Le ore di lavoro dei ragazzi non potevano
diminuire altrimenti sarebbero diminuiti
anche i guadagni.
Nell'inchiesta che abbiamo letto si
invocava una legge che regolamentasse il
lavoro minorile. Non sappiamo come è
andata a finire?
Che questo accadesse nell'Ottocento ci sorprende un pò ma non ci scandalizza,
perché all'epoca mancavano leggi e organizzazioni per la tutela dei diritti e
dell'infanzia.
Ma è scandaloso e inconcepibile che accadano fatti del genere ancora oggi, perché
molti passi sono stati fatti sulla strada dei diritti, anche se molti ne restano ancora da
fare nel cammino che porta all'applicazione di questi.
Diana, Busiello, Longo, Vocatore, classe 2D, plesso
Villini

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