
Un poeta musulmano in Sicilia: Ibn-Hamdis http://www.youtube.com/watch?v=oWVHkSXf7kM&feature=related
La cultura musulmana si diffuse in Sicilia con la colonizzazione araba, permeando in modo fondamentale la storia e la civiltà dell'isola. In questo estratto della sua opera Storia dei musulmani in Sicilia, lo storico Michele Amari ricostruisce la vita e l'opera di Ibn-Hamdis, il maggiore poeta musulmano della Sicilia. Nato a Siracusa, accolto alla corte araba di Siviglia, cantò in 'duemila e cinquecento versi' le bellezze della sua terra natale, l'amore, le gesta guerresche 'con leggiadria ed arte e abbondanza d'estro'.
È il più illustre tra i poeti musulmani di Sicilia; e – coincidenza singolare ! – gli fu patria la stessa patria di Teocrito: Siracusa
Abd-el-Gebbâr-Ibn-Mohammed-ibn-Hamdîs nacque in Siracusa (1056) di nobile famiglia della tribù di Azd, che prendea nome da un Hamdîs, capo himiarita ribellatosi (802) in Affrica contro Ibrahim-ibn-Aghlab. Cresciuto al romor delle armi normanne che già infestavano il Val di Noto, Ibn-Hamdîs, più che agli studii si diede a combattimenti, amori, festini, trincare; finché un successo sul quale ei tocca e passa, credo avventura amorosa in nobil casato, sforzollo a fuggire in Affrica il quattrocensettantuno (1078-79). Ma sdegnando i costumi delle tribù arabiche scatenate dall’Egitto su l’Affrica propria, allettato altresì dalla fama di Mo’tamid-ibn-Abbâd, andò a corte di Siviglia, ove fu accolto con onore e liberalità. In quel ritrovo dei primi poeti contemporanei d’Occidente rifulse il genio d’Ibn- Hamdîs; non si corruppe in corte l’animo franco, liberale, pien d’amore del padre, della Sicilia, degli amici, della gloria, delle donne; d’ogni bellezza di natura e d’arte. Seguì il principe nei campi, com’uomo d’arme ch’egli era ed anco ne facea troppa mostra nei versi. Alla battaglia di Talavera (1086) abbattuto dal cavallo nei primi scontri che tornarono ad avvantaggio dei Cristiani, si sviluppò gagliardamente, n’uscì con la corazza tutta affrappata dai fendenti, più che a se stesso pensando al figlio giovinetto che combattea lì presso con gran valore. Ma quando gli Almoravidi tornarono in Spagna da nemici; quando Mo’tamid fu spoglio del regno e d’ogni cosa, e scannatigli due figliuoli sotto gli occhi, e con le figlie mandato in catene ad Aghmat (1091), Ibn-Hamdîs passava in Affrica, andava a visitarlo nella prigione: dove fecero scambio di sante lagrime e di versi mediocri. Tornatosi il poeta siciliano a Mehdia, saputa non guari dopo la morte di Mo’tamid (1095), soggiornò parecchi anni nelle due corti di casa zîrita, avendo lasciato in lungo poema la descrizione d’un palagio di Mansûr principe hammadita di Bugia, aspro nemico degli Almoravidi; due Kaside in vita ed un’elegia in morte di Iehia-ibn-Temîm (1116) principe di Mehdia; e le lodi di Ali-ibn-Iehia (1116-21) ed Hasan-ibn-Ali (1121-1148) saliti successivamente a quel trono. Scrisse la Soria di Algeziras. Rifinito dall’età e dall’avversa fortuna, ch’ei s’assomigliava ad aquila che più non voli e i figli le imbecchino il pasto, perduto il lume degli occhi, morì di ramadhan cinquecentovenzette (luglio 1133), chi dice a Majorca, chi a Bugia, sepolto accanto al poeta spagnuolo Ibn-Labbâna, col quale avea gareggiato nella grazia di Mo’tamid a Siviglia e nel carcere.
Ingegno felicissimo nel coglier e ritrarre le sensazioni, nel colorirne le dipinture che veggiamo sparse a larga mano in duemila e cinquecento versi: dipinture d’obietti materiali, avvenimenti, passioni, costumi. Delle quali lascerem da canto ciò che non si riferisca alla Sicilia: le geste di Mo’tamid, i suoi palagi ed orti o del principe di Bugia, gli episodii accademici di Siviglia, la morte d’una moglie, il naufragio d’altra sua donna nel viaggio di Spagna ed Affrica, le cacce affricane, le descrizioni d’animali e frutta e fiori, gli specchi di pece, le lampadi a spirito di vino, il piglio feroce dei masnadieri d’oltre Nilo, cui poneva a riscontro gli Arabi inciviliti di Sicilia. Quei compagni di sangue chiarissimo come lo splendor delle stelle, coi quali in gioventù solea cercare all’odorato il miglior muschio dei vigneti siracusani. Entrano di notte in un romitaggio; chiuse le porte, gittan su le bilancette un dirhem d’argento, e la vecchia suora lor ne rende una coppa piena di liquid’oro; poi ne menan via le sposine: quattro anfore vergini, impeciate e sepolte da lunghi anni; elette da un tal che d’ogni succo d’uva ti sa dir patria, età e cantina. Ma gli svelti e vaghi giovani traggono a sala illuminata da gialli doppieri messi in file come colonne che sostenessero eccelsa vôlta di tenebre; dove il signor della festa bandisce esilio e morte alla tristezza: e già le suonatrici, cominciando a toccar le corde, destan gioia negli animi; quella si stringe al petto il liuto, questa dà baci al flauto: una ballerina gitta il piè a cadenza dello scatto delle dita; gentil coppiera va in giro, mescendo rubini e perle, avara sì delle perle che rado allarga le stringhe dal collo [dell’otre di pelle di] gazzella. Oh dolci ricordi della Sicilia, campo di mie passioni giovanili, albergo ch’era di vivaci ingegni, paradiso dal quale fui scacciato! e come riterreimi dal piangerlo? Quivi risi a vent’anni spensierato; ahi che a sessanta mi rammarico di quelle colpe; ma non le biasimar tu, accigliato censore, poiché le cancellava il perdono di Dio!
Figliuoli delle Marche siam noi, cantò altrove Ibn-Hamdîs; a noi spunta il sorriso quando la guerra aggrotta le ciglia; divezziamo i bamboli, in mezzo all’armi, col latte di generose giumente: rassegnaci; e quanti siamo, tanti campioni conterai che ciascun vale una schiera. Indietreggia nostr’oste per rinnovare l’assalto; ritraendosi, sparge la morte: no, che tutte le stelle non son cadute, e pur v’ha una speme in questa guerra, e siam noi. I condottieri ci mostrano il dì della battaglia, un drappo da ricamare con gruppi d’avvoltoi; ché i prodi ad ogni carica di lor nobili [cavalli] ’Awagi, spargon sul terreno larga pastura agli uccelli voraci. Ecco una colomba messaggiera di strage, volar secura tra i lampi. Sì; percotemmo i nemici della Fede entro lor focolari: piombò un flagello su le costiere del Rûm; navi piene di lioni solcarono il mare, armate la poppa d’archi e dardi, lancianti nafta che galleggia e brucia come la pece della gehenna ov’ardono i dannati; cittadelle che vengono a combattere le città dei Barbari, a sforzarle e saccheggiarle. E che valser quei vestiti di maglie di ferro luccicanti, e usi a dar dentro quando pur si ritraggono i prodi? Non piegammo noi al duro scontro; ingozzata la coloquinta, gustammo alfine il dolce favo, e li rimandammo con le armadure squarciate e addentellate da questo sottil filo de’ nostri brandi. Perché l’acciaro nelle nostre mani ragiona, e nelle altrui si fa mutolo. Ma dalla casa mi guardano furtivamente begli occhi travagliati dalla vigilia e dal pianto, ché il dolore dì e notte li avea dipinti di kohl; una manina incantatrice muove le dita a salutarmi. Oh dilettoso giardino, la cui sembianza viene a visitar le pupille aggravate di sonno e le schiude all’immaginativa! Io sospiro la mia terra; quella nel cui seno si fan polvere le membra e le ossa de’ miei, ché già se n’è ito il fior della prima gioventù, alla quale tornan sempre le mie parole.
Sotto il bel cielo di Spagna, nelle regioni temperate dell’Affrica settentrionale, il poeta siracusano non obliò mai quel paese “cui la colomba diè in presto sua collana, e il pavone suo splendido ammanto; dove i raggi del sole avvivan le piante d’amorosa virtù ch’empie l’aere di fragranza; dove tu respiri un diletto che spegne le aspre cure, senti una gioia che cancella ogni vestigio d’avversità”. Pur l’alto sentimento che gli facea parer più belle le naturali bellezze della Sicilia, lo ritenne dal tornar a vederla serva; gli dettò versi di rampogna no, ma di compianto e di verità, ch’è primo debito di cittadino alla patria. Ripetendo ed esaltando in mille modi il valore delle persone, ricordava, sospirando, esser morta nel paese la virtù della guerra. E in età più matura sclamava:
“Oh se la mia patria fosse libera, tutta l’opera mia, tutto me le darei con immutabile
La cultura musulmana si diffuse in Sicilia con la colonizzazione araba, permeando in modo fondamentale la storia e la civiltà dell'isola. In questo estratto della sua opera Storia dei musulmani in Sicilia, lo storico Michele Amari ricostruisce la vita e l'opera di Ibn-Hamdis, il maggiore poeta musulmano della Sicilia. Nato a Siracusa, accolto alla corte araba di Siviglia, cantò in 'duemila e cinquecento versi' le bellezze della sua terra natale, l'amore, le gesta guerresche 'con leggiadria ed arte e abbondanza d'estro'.
È il più illustre tra i poeti musulmani di Sicilia; e – coincidenza singolare ! – gli fu patria la stessa patria di Teocrito: Siracusa
Abd-el-Gebbâr-Ibn-Mohammed-ibn-Hamdîs nacque in Siracusa (1056) di nobile famiglia della tribù di Azd, che prendea nome da un Hamdîs, capo himiarita ribellatosi (802) in Affrica contro Ibrahim-ibn-Aghlab. Cresciuto al romor delle armi normanne che già infestavano il Val di Noto, Ibn-Hamdîs, più che agli studii si diede a combattimenti, amori, festini, trincare; finché un successo sul quale ei tocca e passa, credo avventura amorosa in nobil casato, sforzollo a fuggire in Affrica il quattrocensettantuno (1078-79). Ma sdegnando i costumi delle tribù arabiche scatenate dall’Egitto su l’Affrica propria, allettato altresì dalla fama di Mo’tamid-ibn-Abbâd, andò a corte di Siviglia, ove fu accolto con onore e liberalità. In quel ritrovo dei primi poeti contemporanei d’Occidente rifulse il genio d’Ibn- Hamdîs; non si corruppe in corte l’animo franco, liberale, pien d’amore del padre, della Sicilia, degli amici, della gloria, delle donne; d’ogni bellezza di natura e d’arte. Seguì il principe nei campi, com’uomo d’arme ch’egli era ed anco ne facea troppa mostra nei versi. Alla battaglia di Talavera (1086) abbattuto dal cavallo nei primi scontri che tornarono ad avvantaggio dei Cristiani, si sviluppò gagliardamente, n’uscì con la corazza tutta affrappata dai fendenti, più che a se stesso pensando al figlio giovinetto che combattea lì presso con gran valore. Ma quando gli Almoravidi tornarono in Spagna da nemici; quando Mo’tamid fu spoglio del regno e d’ogni cosa, e scannatigli due figliuoli sotto gli occhi, e con le figlie mandato in catene ad Aghmat (1091), Ibn-Hamdîs passava in Affrica, andava a visitarlo nella prigione: dove fecero scambio di sante lagrime e di versi mediocri. Tornatosi il poeta siciliano a Mehdia, saputa non guari dopo la morte di Mo’tamid (1095), soggiornò parecchi anni nelle due corti di casa zîrita, avendo lasciato in lungo poema la descrizione d’un palagio di Mansûr principe hammadita di Bugia, aspro nemico degli Almoravidi; due Kaside in vita ed un’elegia in morte di Iehia-ibn-Temîm (1116) principe di Mehdia; e le lodi di Ali-ibn-Iehia (1116-21) ed Hasan-ibn-Ali (1121-1148) saliti successivamente a quel trono. Scrisse la Soria di Algeziras. Rifinito dall’età e dall’avversa fortuna, ch’ei s’assomigliava ad aquila che più non voli e i figli le imbecchino il pasto, perduto il lume degli occhi, morì di ramadhan cinquecentovenzette (luglio 1133), chi dice a Majorca, chi a Bugia, sepolto accanto al poeta spagnuolo Ibn-Labbâna, col quale avea gareggiato nella grazia di Mo’tamid a Siviglia e nel carcere.
Ingegno felicissimo nel coglier e ritrarre le sensazioni, nel colorirne le dipinture che veggiamo sparse a larga mano in duemila e cinquecento versi: dipinture d’obietti materiali, avvenimenti, passioni, costumi. Delle quali lascerem da canto ciò che non si riferisca alla Sicilia: le geste di Mo’tamid, i suoi palagi ed orti o del principe di Bugia, gli episodii accademici di Siviglia, la morte d’una moglie, il naufragio d’altra sua donna nel viaggio di Spagna ed Affrica, le cacce affricane, le descrizioni d’animali e frutta e fiori, gli specchi di pece, le lampadi a spirito di vino, il piglio feroce dei masnadieri d’oltre Nilo, cui poneva a riscontro gli Arabi inciviliti di Sicilia. Quei compagni di sangue chiarissimo come lo splendor delle stelle, coi quali in gioventù solea cercare all’odorato il miglior muschio dei vigneti siracusani. Entrano di notte in un romitaggio; chiuse le porte, gittan su le bilancette un dirhem d’argento, e la vecchia suora lor ne rende una coppa piena di liquid’oro; poi ne menan via le sposine: quattro anfore vergini, impeciate e sepolte da lunghi anni; elette da un tal che d’ogni succo d’uva ti sa dir patria, età e cantina. Ma gli svelti e vaghi giovani traggono a sala illuminata da gialli doppieri messi in file come colonne che sostenessero eccelsa vôlta di tenebre; dove il signor della festa bandisce esilio e morte alla tristezza: e già le suonatrici, cominciando a toccar le corde, destan gioia negli animi; quella si stringe al petto il liuto, questa dà baci al flauto: una ballerina gitta il piè a cadenza dello scatto delle dita; gentil coppiera va in giro, mescendo rubini e perle, avara sì delle perle che rado allarga le stringhe dal collo [dell’otre di pelle di] gazzella. Oh dolci ricordi della Sicilia, campo di mie passioni giovanili, albergo ch’era di vivaci ingegni, paradiso dal quale fui scacciato! e come riterreimi dal piangerlo? Quivi risi a vent’anni spensierato; ahi che a sessanta mi rammarico di quelle colpe; ma non le biasimar tu, accigliato censore, poiché le cancellava il perdono di Dio!
Figliuoli delle Marche siam noi, cantò altrove Ibn-Hamdîs; a noi spunta il sorriso quando la guerra aggrotta le ciglia; divezziamo i bamboli, in mezzo all’armi, col latte di generose giumente: rassegnaci; e quanti siamo, tanti campioni conterai che ciascun vale una schiera. Indietreggia nostr’oste per rinnovare l’assalto; ritraendosi, sparge la morte: no, che tutte le stelle non son cadute, e pur v’ha una speme in questa guerra, e siam noi. I condottieri ci mostrano il dì della battaglia, un drappo da ricamare con gruppi d’avvoltoi; ché i prodi ad ogni carica di lor nobili [cavalli] ’Awagi, spargon sul terreno larga pastura agli uccelli voraci. Ecco una colomba messaggiera di strage, volar secura tra i lampi. Sì; percotemmo i nemici della Fede entro lor focolari: piombò un flagello su le costiere del Rûm; navi piene di lioni solcarono il mare, armate la poppa d’archi e dardi, lancianti nafta che galleggia e brucia come la pece della gehenna ov’ardono i dannati; cittadelle che vengono a combattere le città dei Barbari, a sforzarle e saccheggiarle. E che valser quei vestiti di maglie di ferro luccicanti, e usi a dar dentro quando pur si ritraggono i prodi? Non piegammo noi al duro scontro; ingozzata la coloquinta, gustammo alfine il dolce favo, e li rimandammo con le armadure squarciate e addentellate da questo sottil filo de’ nostri brandi. Perché l’acciaro nelle nostre mani ragiona, e nelle altrui si fa mutolo. Ma dalla casa mi guardano furtivamente begli occhi travagliati dalla vigilia e dal pianto, ché il dolore dì e notte li avea dipinti di kohl; una manina incantatrice muove le dita a salutarmi. Oh dilettoso giardino, la cui sembianza viene a visitar le pupille aggravate di sonno e le schiude all’immaginativa! Io sospiro la mia terra; quella nel cui seno si fan polvere le membra e le ossa de’ miei, ché già se n’è ito il fior della prima gioventù, alla quale tornan sempre le mie parole.
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